BLUES JOKE: Better Old Than Dead
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03/02/2025I Blues Joke nascono da un proposito interrotto di un power trio, orfano di bassista/cantante. Progetto hard rock blues, un derivativo southern rock (con rare e corte jams, privi della presenza di più chitarre simultanee), dal tocco metal (per le accellerazioni). Così li definiscono! E dalla singolare voce che metterebbe in disaccordo tutte queste considerazioni. Le composizioni sono figlie delle idee della sei corde rock blues, Marco Marin (ex Hellride, Brotherhood Band, Strike Nine); i nuovi testi per le vecchie canzoni (non ancora pubblicate), sono opera del nuovo adottivo cantante Francesco Caldarola, nonché bassista, dal suono anni ’70 (ex Stampeed, Bassoventrio, Tempesta); e la verve metal è impersonificata dal batterista Marco Piran (ex Mothercare, Aneurysm, Fear of Fours). Sono di Verona e provengono da generi musicali differenti; caratteristica che si può notare isolando l’ascolto delle singole personalità. Idee, concetti musicali buoni, ma spesso intrappolati in ripetizioni. Si parte con “At The End”; il mio pensiero va subito ai Nantucket (nella loro fase più hard rock) e/o ai Doc Hoolliday (ma i Blues Joke sono in tre) e (meglio ma), con una voce non rock, non southern, più alternative, tipo Perry Farrell (Janes’s Addiction), un po’ nasale, da cartoon, squillante, maledettamente riconoscibile. Sensazione difficile da descrivere, ma è ciò che più colpisce in questa prima traccia di presentazione. Questo aspetto è un’arma a doppio taglio (potrebbe essere la riconoscibilità del gruppo), ed è una potenzialità che va indirizzata! Nella traccia successiva sarà una questione di livello di tonalità (bassi e alti miscelati), ma la seconda canzone fa subito un altro effetto. La vocalità sembra aver trovato l’equilibrio nel gruppo. Cambia la mia prospettiva, il mio pensiero va verso tutte quelle band della NWOBHM a tre/quattro elementi, caratterizzate dalla voce più terrena, potrei fare esempi più datati tipo Vardis (‘Quo Vardis’), o più recenti tipo gli svedesi Night (‘Hight Tides – Distant Skies’), band apprezzate dall’ascoltatore rock metal. In “Hater” la sinergia con gli altri strumenti è perfetta: chitarra da Molly Hatched e batteria da Led Zeppelin. La strumentale “Find Your Place” ha l’effetto da intro “Nobody’s Fault But Mine” (ma senza voce), il cui volume aumenta nei suoi cinquantadue secondi e si alterna nella sua provenienza (destra/sinistra). “Know Your Place” è compositivamente la parte seconda di “Hater”, qui ci addentra nei dettagli pregevoli del gruppo, in particolare nel fondamento dell’arpeggio glissato di Jimmy Page, e nel respiro anni ’70 del basso funk. Questo basterebbe a descrivere la totalità dell’album che potrebbe essere rivolto ai fan dei Molly Hatchet, Doc Holliday, Point Blank, Led Zeppelin, Budgie, ZZ Top, ma vorrei porre l’accento sugli episodi non ripetitivi che mi hanno fatto pensare ai margini di crescita della band italiana: il tessuto r&r (molto Vardis) di “Let’s Rock You All”, i cui suoni alti del cantato duettano molto bene con i bombardamenti continui dei bassi; o il modo di terminare una canzone, sfumandola con una parte più strumentale come ad esempio “Under This Cold Sky”; o ancora il modo di come “prendersi un po’ di tempo” nel bel mezzo di “Damned”. Dovrebbero liberarsi della ripetitività.
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