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HOLY MARTYR: STILL AT WAR

data

21/05/2007
95


Genere: Epic Metal
Etichetta: Dragonheart
Anno: 2007

Finalmente è arrivato: Still At War, l’attesissimo full-lenght dei sardi Holy Martyr, è da qualche giorno nei negozi. Di ciò dobbiamo ringraziare l’etichetta italiana Dragonheart di Enrico Paoli (Domine) per aver creduto nella band a tal punto da produrre loro questo primo disco, che i fans attendevano da almeno 3 anni. Prima di questa uscita gli Holy Martyr si erano già ritagliati un posto di tutto rispetto all’interno della scena underground internazionale grazie alla pubblicazione di tre stupendi EP: Hatred & Warlust (2002), Hail To Hellas (2003) e il recente Vis Et Honor (2005), che potete trovare recensiti su queste pagine. Prodotti limitatissimi (500 copie al massimo) e rigorosamente autoprodotti, ma che hanno trovato subito un posto nel cuore di molti appassionati in tutto il mondo, tanto da consentire alla band di suonare, nel 2004, al Keep It True, il maggior festival heavy metal europeo. La Sardegna sicuramente non è il posto ideale dove stare per una band che ha voglia di emergere: distanza, diffidenza e difficoltà varie sono un ostacolo quasi insormontabile. Tuttavia la passione e l’eccelsa qualità della musica ha permesso agli Holy Martyr di raggiungere il contratto discografico, così che noi possiamo finalmente goderceli a pieno nella dimensione più appropriata: il full-lenght. Consapevoli della difficile reperibilità dei loro precedenti lavori, i cinque ragazzi hanno preferito inserire nel disco un solo inedito (Ave Atque Vale), riservando le altre sette tracce che compongono questo lavoro a pezzi già ascoltati sui vecchi demo ri-registrati per l’occasione. I dischi più saccheggiati sono Vis Et Honor (rifatto per intero) e Hatred & Warlust, ormai divenuto davvero introvabile, mentre da Hail To Hellas è stata estratta solo la bonus track From The North Comes The War: che i nostri si riservino gli altri pezzi per un concept sulla battaglia delle Termopili? Staremo a vedere. Nel frattempo godiamoci questo (capo)lavoro: un disco eccezionale di puro epic metal, sulla scia di cult bands come Manowar, Omen e Manilla Road, ma aperto a molteplici influenze (Iron Maiden su tutti) che non fanno altro che impreziosire uno dei sound più potenti e maestosi attualmente in circolazione. Capirete che recensire un lavoro tanto emozionante non è affatto facile: è davvero impresa ardua trasmettere le molte emozioni suscitate da una tale opera. Per facilitarmi (e facilitarvi) il compito, penso sia opportuno procedere ad una recensione traccia per traccia, per cercare di comprendere appieno le mille sfaccettature del disco: Legion’s Oath: il disco inizia con un intro in latino, epica e marziale. La parte narrata era, a mio parere, resa meglio su Vis Et Honor: in questa versione la ripetizione di ogni singolo verso è piuttosto ridondante, mentre la versione originale era molto più semplice, ma allo stesso tempo più efficace. Nulla da dire invece sulla parte strumentale, che è esattamente come me la ricordavo. Vis Et Honor: il pezzo si ricollega direttamente all’intro con un riff cadenzato e trascinante, mentre un urlo selvaggio apre le danze: i legionari ora marciano sul campo di battaglia, invocando Marte e glorificando l’Impero. Non c’è speranza per i traditori (“There’s no mercy for the foes of the Empire”), la gloria di Roma spazzerà via tutti i nemici e conquisterà il mondo. Quell’“Ave, ave Roma”, che 2000 anni fa veniva urlato in tutto il mondo conosciuto, ora risuonerà ancora nelle vostre case, per ricordare che ci fu un tempo, nella Storia, in cui un solo popolo sottomise gli altri e portò la civiltà e la cultura ai barbari. Vis Et Honor è probabilmente, a tutt’oggi, il miglior tentativo di mettere in musica un’esperienza tanto lunga ed eterogenea come l’Impero Romano: la musica è semplicemente meravigliosa, il ritornello da scariche di adrenalina difficilmente controllabili, l’assolo dei due axemen Ivano ed Eros è talmente bello da risultare commuovente, il testo semplice ma bello e mai banale. La versione del precedente EP mi aveva lasciato a bocca aperta: raramente mi era capitato di emozionarmi a tal punto con un pezzo heavy metal; la nuova versione è probabilmente anche più bella dell’originale, ma per me ormai non è più una sorpresa. Invidio chi di voi ha la fortuna di non averla mai sentita, perché potrà (almeno spero) provare le bellissime sensazioni che questa canzone dà al primo ascolto. Ares Guide My Spear: dopo essersi occupato della gloria di Roma, il gruppo ritorna ai vecchi amori, vale a dire la Grecia antica e le sue battaglie (tematiche protagoniste dei primi due EP). Anche questo pezzo, come i due precedenti, è tratto dal recente EP Vis Et Honor. Dopo un capolavoro come il pezzo precedente, è davvero difficile tenere alta la tensione: eppure gli Holy Martyr ci riescono appieno, sfornando un brano bellissimo e anch’esso carico di pathos. Certo, le emozioni suscitate da Vis Et Honor sono irripetibili, ma Ares Guide My Spear riesce comunque a scaldare i cuori degli ascoltatori. Ciò anche grazie ad una performance eccezionale da parte del singer Alex Mereu, che con questo pezzo riesce ad esprimere appieno le sue ottime doti vocali. Notevolissimo anche lo stacco presente a metà della canzone, una sorta di bridge che precede un altro splendido assolo. Warmonger: chiusa la pratica Vis Et Honor, ecco arrivare il primo pezzo tratto dallo storico primo album autoprodotto: Hatred & Warlust, il principio di tutto, il disco che per primo ha cominciato a far parlare della band sarda in tutta Europa. Questo è dunque uno dei primi pezzi composti dal gruppo, e si sente: il brano è grezzo e genuino e le influenze thrash, poi praticamente scomparse negli ultimi lavori, qui sono davvero molto marcate. Basti sentire l’inizio del pezzo, o la strofa e la seguente parte cadenzata (“Fight… and kill… tonight… for honor”) per rendersene conto, mentre il ritornello è ai limiti dello speed metal. Tutto questo, naturalmente, conservando massicce dosi di epica e melodia. Un pezzo semplice, immediato e assolutamente travolgente, forse il più divertente dell’intero lotto, sorta di cerniera fra i pezzi più recenti e i pezzi più vecchi che seguiranno. Hatred Is My Strenght: ancora un pezzo da Hatred & Warlust, anche se molto più ambizioso e complesso del precedente: oltre 10 minuti di musica, il più lungo e articolato del disco. Un riff cadenzato, che occupa il primo minuto del brano, introduce una strofa molto più movimentata; segue un lancinante urlo di battaglia, dove gli arpeggi delle chitarre accompagnano l’ennesima straordinaria prestazione di Alex alla voce, che emozionerebbe anche il più insensibile degli ascoltatori. Il pezzo prosegue su alti livelli fino alla fine, senza mai annoiare e riuscendo, invece, a coinvolgere chi ascolta con continue variazioni e con armonizzazioni a dir poco stupende da parte dei due axemen. Forse non sarà il pezzo migliore del disco, ma il cimento dei nostri con un brano di questa lunghezza è, nel complesso, vincente. From The North Comes The War: per qualche ragione a me ignota questo pezzo, affine per tematiche ai brani di Hatred & Warlust, fu invece inserito come bonus track per le prime 200 copie del successivo EP Hail To Hellas. Vista la sua rarità, è stato dunque deciso di ri-registrarlo. Mai scelta fu più appropriata: “From The North Comes The War” è un autentico capolavoro, una gemma che non meritava davvero di restare sepolta in quelle 200 copie. Il pezzo ha una struttura semplice e i riffs sono piuttosto lineari, a dimostrazione che spesso le cose migliori sono anche le più facili; ma ascoltando il riff principale, che accompagna la strofa, non potrete davvero fare a meno di ondeggiare la testa avanti e indietro. Il ritornello, poi, è una delle cose più epiche che mi sia mai capitato di ascoltare, con Alex nuovamente in grande spolvero. Lo stacco strumentale, posto sapientemente a metà del brano per spezzare la tensione, contiene anche un lungo e bellissimo assolo che ci accompagna fino al finale. Un pezzo epico, cadenzato, trascinante, necessario. Hadding Garmsson: un altro pezzo da Hatred & Warlust, che i fan sicuramente ricorderanno: si tratta della vecchia Son Of A King, uno dei più apprezzati della discografia della band. Rispetto al precedente brano, caratterizzato per la sua semplicità e immediatezza, qui si cambia registro: il pezzo è complesso, sfaccettato, dalle molteplici influenze. Il risultato? L’ennesimo capolavoro, uno dei pezzi più belli dell’album e probabilmente uno dei vertici compositivi dell’heavy metal tricolore. La prima parte cadenzata del pezzo ricorda molto i Candlemass più epici (tanto che in un passaggio si sfiora il plagio di Solitude); poi un assolo introduce la parte più movimentata del pezzo, un misto da Judas Priest, Iron Maiden e Omen. Il chorus è, ancora una volta, assolutamente spettacolare: “I’m a son of a king and my father I’ll revenge” urla il guerriero assetato di vendetta, e noi non possiamo fare altro che commuoverci. Ave Atque Vale: “Once upon a time there was Europe…”: comincia così Ave Atque Vale, l’unico pezzo inedito presente sul disco. E infatti quella raccontata dai cinque martiri altro non è che una storia: la storia di una grande idea, l’idea di Europa, un sogno che si realizzò già una volta 2000 anni fa e che oggi speriamo di realizzare ancora. Il testo ci ricorda infatti di quando l’Europa era tenuta unita sotto il vessillo imperiale di Roma antica, che aveva portato e imposto in tutto il continente quel modello culturale che ancora oggi accomuna molti paesi dell’Unione Europea. Il brano è stato composto subito dopo le registrazioni di Vis Et Honor, in un periodo in cui la vena creativa della band era evidentemente molto sviluppata: il risultato del loro lavoro è infatti ancora una volta stupefacente. I riffs del pezzo sono uno più bello dell’altro, gli incroci di chitarra di Alex e Eros lasciano a bocca aperta e il chorus è di quelli che, in sede live, fanno sgolare gli spettatori; l’assolo, poi, è veramente emozionante, uno dei più belli di tutto il lavoro. Dire se questo sia il pezzo migliore dell’album è davvero difficile, vista la concorrenza; ma di sicuro non sfigura di fronte ai vecchi brani, lasciando ben sperare circa le prossime uscite discografiche della band. Questo è, in sintesi, Still At War. Per il momento si tratta del disco migliore del 2007, e dubito che ce ne possa essere un altro capace di prenderne il posto. L’unica pecca rilevabile in un tale capolavoro è la produzione, a mio modo di vedere troppo debole e spesso incapace di rendere appieno la forza della musica degli Holy Martyr; ma non si tratta di nulla che possa pregiudicare la buona resa dell’album, e questo difetto non fa altro che rendere più genuina la vena “old school” del roccioso epic metal proposto dai cinque. Niente tastiere, contaminazioni o ritocchi; solo sangue, sudore ed heavy metal: tanto basta per scaldare il cuore di noi defenders incalliti, incapaci di accettare la barbarie moderna. Dischi come questo ci fanno capire che non tutto è perduto, e che esiste ancora qualcuno capace di risollevare le sorti della musica che più amiamo. Tuttavia sono sicuro che anche i meno intransigenti tra voi troveranno il modo di apprezzare un disco tanto emozionante: perché la classe non è acqua, e gli Holy Martyr di classe ne hanno in abbondanza.

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