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KRELL

Un album d'esordio interessante, concepito ed interpretato da due figure storiche del metal tricolore. 'Deserts' ha radici solide e ben piantate in profondità, dunque, e le sue ramificazioni stanno man mano dando i frutti sperati. Motivo per cui non potevano non approfondire il discorso con i Krell, per l'occasione rappresentati da Francesco Di Nicola. 

Chi sono i Krell? E perchè Krell? I Krell sono sostanzialmente due vecchi amici che alcuni anni fa decisero semplicemente di comporre insieme canzoni sulla base delle proprie e rispettive esperienze e caratteristiche musicali, senza particolari riferimenti stilistici quali modelli da seguire. Per la parte di batteria, in fase di registrazione, ho successivamente chiesto di svolgere il compito a Paolo Caridi, un batterista che vanta esperienze con musicisti di caratura internazionale quali Reb Beach, Geoff Tate ed Ellefson & Soto. Luca Bonzagni è stato il cantante storico e cofondatore dei Crying Steel; io suonai nel primo lavoro dei Danger Zone nel lontano 1984 e più tardi con i Crying Steel, i quali mi chiesero di suonare con loro, ma in un periodo in cui Bonzagni era uscito dal gruppo. Io e Luca non abbiamo, quindi, mai militato contemporaneamente nei Crying Steel, anche se negli anni '90 abbiamo collaborato facendo altre cose che non hanno condotto a produzioni discografiche. Il nome “Krell” non ha poi un particolare significato ed è frutto della precisa volontà di evitare parole inglesi, anche se la lingua scelta per l’interpretazione canora è appunto l’inglese. Come ragionamento potrebbe sembrare strano, ma il gruppo è italiano, non inglese: se da un lato un nome italiano (che nulla avrebbe di male) potrebbe sembrare stridente con la lingua adottata nei testi, quest’ultima non deve necessariamente avere natura impositiva su un nome del gruppo. E’ una cosa che ho sempre pensato.
 
Il vostro esordio, ma già titolo emblematico. Anche l'artwork nell'immediato lascia poco spazio all'immaginazione. Luogo, territorio da sempre inospitale. Metaforicamente, però, sappiamo bene quanto possa suscitare emozioni tra le più contrastanti. Quali le vostre e quale interpretazione dovrebbe cogliere l'ascoltatore? I deserti sono luoghi ricchissimi di fascino. Sono spesso incantevoli, ma per noi umani sono inevitabilmente riconducibili ad emozioni e sentimenti molto forti, esattamente gli stessi che caratterizzano i testi dei dieci brani scritti da Luca Bonzagni per 'Deserts'. Oltretutto, i deserti sono scenari effettivamente molto diversi tra loro: senza presunzione alcuna di esserci effettivamente riusciti, il nostro percorso compositivo ci ha orientato a cercare di strutturare dieci brani ben distinti. Forse è questo il motivo per cui, ascoltando 'Deserts', può sembrare che non venga mai presa una precisa direzione. In fondo nei deserti è facile perdersi…
 
Viviamo nell'era del "modern" e del "post" qualsiasi cosa. Sotto certi aspetti rappresenta anche un bene, ma come spesso accade trasformiamo proposte interessanti e per certi versi "svecchianti" in una necessità commerciale. Le vostre coordinate stilistiche invece sono di stampo classico, sempre in bilico tra l'heavy e l'hard rock. E' solo una questione di indole formativa, oppure è proprio quello che vi piace anche suonare e di conseguenza ascoltare? Per quanto mi riguarda direi entrambe. Bonzagni è certamente più aperto ai tempi a noi più vicini; Paolo Caridi è un professionista abituatissimo ad esprimersi in modo moderno, ma cela una spassosa indole classica ed è stato per lui divertente poterla rivelare in pieno in questo album. Detto questo, di eccezioni famose troppe ne esistono, ma con estrema probabilità in un gruppo hard/heavy si compone partendo dai soliti riff di chitarra. Il chitarrista propone i suoi giri di accordi, il cantante ricama sopra le sue melodie, il batterista ed il bassista contribuiscono all’arrangiamento e alla costruzione del brano. Con questo presupposto, dato che così è stato anche nel nostro caso, direi che la causa della classicità del risultato deriva principalmente dalla mia personale impostazione. In estrema franchezza, chitarristicamente parlando, per me gli anni '90 è come se non fossero mai arrivati; so bene che nell’album ciò si ravvisa facilmente, ma altrettanto sinceramente non riesco a trovare un solo motivo per provarne imbarazzo. Bonzagni per il mio ruolo avrebbe probabilmente preferito qualche influenza più recente e su questo ci abbiamo scherzato spesso sopra, ma alla fine, volente o nolente, si è dovuto rassegnare a costruire le sue melodie canore su una matrice sostanzialmente anni '80.

Restando in tema, a volte elencare le band più o meno storiche alle quali altri gruppi si ispirerebbero suona più come una scortesia che un elogio, trasformando quella determinata formazione in una cover band, soprattutto quando quel determinato gruppo manifesta personalità. Caratteristica che ai Krell certo non manca. Da quale "oasi" recuperate l'acqua per "dissetarvi"?  Questa domanda è perfetta perché le oasi hanno sempre a che fare con i deserti! Quando ci si cerca per formare un gruppo e magari si è per giunta molto giovani ed inesperti o si è letteralmente fenomeni in termini di personalità musicale, oppure, più probabilmente, occorre elencare qualche riferimento eloquente ancor prima di iniziare a trovarsi per suonare, anche solo per capirsi e non rischiare di perdere troppo tempo. Nel nostro caso, quando Bonzagni ed io (purtroppo due ex ragazzi dei primi '80) decidemmo di comporre insieme, sapevamo entrambi che per il nostro obiettivo non avrebbe avuto alcun senso scambiarci riferimenti stilistici: conoscendoci molto bene, eravamo già in principio reciprocamente consapevoli delle nostre caratteristiche. L’unica cosa che potemmo dirci fu “facciamo quello che viene” e così è stato; l’unica attenzione mantenuta è stata quella di cercare di differenziare i brani tra loro. Quindi, detto questo, l’oasi da cui attingiamo è né più né meno che la nostra stessa cultura musicale complessiva, ridotta o ampia che sia. Considera che i soliti supernomi di sempre, i mostri sacri dell’hard’n’heavy, insomma, sono i gruppi che ascoltavamo normalmente durante la nostra gioventù e con questo credo di avere detto tanto se non tutto. Ai tempi mi ritrovavo a casa degli amici ad ascoltare musica e il giradischi suonava i Priest più veraci, gli AC/DC dei tempi di "Hells Bells", i Van Halen dei tempi di "Eruption", i Maiden con Di Anno, i Black Sabbath con Ronnie James Dio, il primo Ozzy solista e tantissimi altri. Noi durante quei pomeriggi non stavamo ascoltando musica vecchia, era la nostra musica, quella appena uscita, era la musica dei nostri anni! Come si fa venire fuori con la testa da quella “roba” lì? Io ne resto volentieri imprigionato.

Sempre restando sull'argomento, classico il vostro stile, classico anche il modo di comporre? Oppure nell'era digitale vi scambiate idee tramite la rete? Al di là dei tempi funesti di questi ultimi 3 anni, pare sia la prassi per un gruppo ritrovarsi praticamente insieme solo in studio per le registrazioni (forse...), lasciando l'anima a casa (o in cantina, o in garage, dove storicamente sono nati i grandi gruppi e migliaia di altri a seguire...). Quale il vostro approccio?  I brani sono nati in sala prove, assolutamente e rigorosamente in sala prove, ma sinceramente credo che, ai fini di risultato discografico, ciò conduca ad un risultato diverso e non necessariamente migliore. Certo, in sala si sfrutta la creatività in modo puntuale e ci si influenza tra musicisti in modo istantaneo; ne guadagna l’essenza e l’intenzione del brano, ma spesso si trascurano involontariamente tanti piccoli particolari che emergono puntualmente al momento di registrare. Oltretutto, cosa più importante, in registrazione si rischia di ottenere un risultato lontano da quello atteso. Poi, per carità, può essere bellissimo comunque, però “diverso”. Altrettanto, creare musica direttamente su file non è che sia necessariamente meglio. E' semplicemente differente. Col tuo permesso, potrei fare una similitudine con questa intervista; pensa che stranezza: avremmo potuto incontrarci tu ed io per provarla e riprovarla recitando fino a raggiungere reciproca soddisfazione per poi un giorno improvvisamente doverla scrivere. Sono certo tu sia d’accordo con me che non sarebbe stato semplice ritrasferire le emozioni di quanto saremmo stati soliti “autoascoltare” dal vivo e forse poi non ci saremmo nemmeno più di tanto sorpresi se, dopo la trascrizione, fosse derivato un risultato differente. Un altro modo di procedere può essere invece quello di rimpallarci in continuazione l’intervista con un file fino a completa soddisfazione: con questo metodo è difficile che il risultato progressivo porti a grandi sorprese perchè ogni volta si ha il riscontro dello stato di avanzamento del lavoro e lo si perfeziona mano a mano sulla base delle emozioni che sta suscitando. Maggiore freddezza? Per forza. Ricordiamoci sempre però che la sala prove, proprio come un palcoscenico, è un ambiente “live” e che un album in studio non è un concerto: è un prodotto all’interno del quale bisogna cercare di immortalare musica costruendolo per bene. È esattamente come un film (che ricordiamoci, non è un’esibizione teatrale), il quale viene pazientemente girato e montato scena dopo scena con l’ausilio di mille effetti speciali.
 
'Deserts' sfodera brani molto diretti ed infuocati, poco spazio a sovrastrutture o stratificazioni. Emerge in essi l'urgenza, la prontezza dell'immediato. Si nota la voglia che avevate di portare a termine il lavoro. A quanto pare tutto è filato liscio come da aspettative. O mi sbaglio?  In realtà lungo tutto l’album sono spesso presenti quattro chitarre che suonano contemporaneamente e che arrivano a cinque, anche sei con le soliste. In un paio di brani ho suonato due volte la stessa parte di basso per tentare di conferire maggiore impatto al suono; sono inoltre spesso presenti tappeti di tastiere che ho volutamente lasciato ad un livello quasi impercettibile, ma che danno in realtà corpo alla sonorità complessiva. Forse la sensazione di immediatezza deriva dal fatto che, a parte voce e batteria, la mano che ha suonato gli strumenti sopra citati è la stessa. Il fatto che 'Deserts' in realtà non sia scarno di strumenti, ma che suoni diretto ed infuocato mi fa assai piacere. Del resto problemi non ce ne sono stati; nell’album suonano solo tre persone e i problemi spesso sono direttamente proporzionali al numero di cervelli contribuenti alla creazione del prodotto. Non dimentichiamo poi che il fonico che ha registrato l’album è Roberto Priori; Roberto per me è un compagno di palco dei primi ottanta, ma soprattutto un vecchio amico: quando eravamo ragazzi (ma già imbracciavamo insieme le chitarre) lo raggiungevo spessissimo a casa per ascoltare insieme i vinili dei tempi. Oggi in sala ci capiamo sempre all’istante, e se tutto suona così liscio è anche merito suo.

In fase di recensione ho sottolineato quanto sia importante per i Krell non fermarsi a questo esordio dato che ci sono tutte le potenzialità per migliorare ancora. Sarà sicuramente presto parlarne adesso, ma spero abbiate già le idee ben chiare in merito al futuro, e soprattutto quale strada intraprendere dato che, seppur solide (e classiche) le fondamenta, in 'Deserts' spaziate dall'hard all'heavy, dal rock al blues, all'hard melodico. A meno che non sia questa (l’eterogeneità) la caratteristica che intendete associare al vostro monicker...Per il momento ci stiamo godendo il risultato di 'Deserts' ed effettivamente è presto per parlarne. Migliorare nel prossimo album nel senso di suonare meglio o cantare meglio certamente sì, questo lo rivelano anche i grandissimi maestri professionisti opera dopo opera anche in età matura, quindi figuriamoci se non possiamo e dobbiamo farlo noi… Migliorare è nello spirito di tanti individui ed anche nel nostro. Se per migliorare invece intendi sfuggire alla classicità compositiva ed avvicinarsi ai tempi più recenti, in questo caso temo manchi la mia volontà, anche perché sinceramente non interpreterei la cosa come un miglioramento, ma una scelta. Reputo che le evoluzioni siano una bella cosa solo se dettate dalla naturalezza, senza che esse vengano decise a tavolino. Io e Bonzagni abbiamo oltretutto composto insieme anche un altro lavoro che può testimoniare che si fa “solo quello che viene”: 'God is a Witness' degli Anims, uscito nel 2021 in digitale ed in formato fisico lo scorso anno, sempre con Sneakout Records. La voce femminile di Elle Noir conferisce un risultato profondamente diverso a quello di 'Deserts', ma è sufficiente una modesta cultura rockettara per constatare che la base su cui essa si muove è sostanzialmente la medesima: ottantiana, classica, spaziante tra l’hard melodico e l’heavy metal, tra il rock classico ed il blues. Temo che, finché a proporre i riff su cui comporre i brani sarà il sottoscritto, ci sarà poco da fare. Chissà, forse perché non ho voglia di crescere e di fare arrivare gli anni novanta...

Non siete certo delle nuove leve. Di anni e di dischi ne sono passati e ne avrete di sicuro viste e sentite tante. Nel corso del tempo si è sempre parlato della scena italiana come una sorta di scena serie C con infiniti problemi di ogni genere e sorta. Senza toccare il tasto dell'invidia, delle guerre tra band, personaggi strambi, promoter, etichette e gestori di locali molto poco seri e via dicendo. Nell'era del globalismo sfrenato, alle porte del 2023, la cosiddetta scena italiana a che livello di evoluzione della specie è arrivata?  Parlo sempre in chiave strettamente personale ed espongo la mia teoria. Che gli italiani in questo genere musicale siano figli di un dio minore non c’è dubbio, e secondo me, onestamente, anche se non ce lo meritiamo più, siamo ancora in serie C. Il punto è perché sia così. Musicisti scarsi? Certo che no! E allora perché gli anglofoni sono in serie A? Perché gli scandinavi e i tedeschi sono in serie B e spesso sono stati, vanno e restano in serie A? Perché i latini in generale sono per lo più in serie C? Perché altri ancora (direi che esistono pure quelle…) stanno nelle serie successive? Penso che le ragioni siano sostanzialmente due. Una, secondo me, è puramente linguistica: pura e mera conoscenza della lingua comunemente adottata nel rock: l’inglese. L’altra deriva dalla velocità con cui negli anni i popoli (musicisti compresi) hanno metabolizzato il suono della chitarra distorta (l’ingrediente di base del rock in senso ampio). Non c’è dubbio che 40/50 anni fa in Italia il suono distorto della chitarra, oggi estremamente familiare a tutti, era solo per orecchie specialistiche e per i più era soltanto un ronzio talora insopportabile. Tutto questo ha generato un grave ritardo nella qualità delle produzioni ed una conseguente mancanza di credibilità internazionale oggi difficile da recuperare. Credo però che la questione linguistica prevalga; non può essere un caso che scandinavi e tedeschi stiano subito dietro agli anglofoni: i primi conoscono l’inglese a menadito come fossero madrelingua, i secondi ci danno dieci giri, facilitati dal fatto che il tedesco è una lingua di origine sassone. Mia moglie non è musicista, ma è madrelingua inglese: quando ascolta certi prodotti italiani cantati in inglese (per non parlare delle cover band), resta spesso estremamente perplessa… Comprendere è importante, fondamentale. Basti pensare quanto piaccia agli italiani la musica italiana, magari solo perché si registra bene nel cervello con il contributo di un testo che viene compreso perfettamente e che può essere ricantato correttamente recitandolo a memoria durante i concerti o più banalmente in automobile. Comprendere bene un testo, constatare che la pronuncia di un cantante è nella norma, non rilevarne errori, avere l’istinto di ricantare a squarciagola le canzoni preferite con la consapevolezza che si stanno ripetendo cose comprensibili, sensate e soprattutto corrette, tutto questo è importante; tutto questo contribuisce alla credibilità, al successo e alla diffusione della musica cantata. Tutto questo non deve meravigliare, è un processo normale, una necessità a volte inconsapevole. Esposta la mia convinzione, non ho altre idee in merito anche perché, a prescindere dal genere musicale, l’Italia vanta ed ha sempre vantato musicisti e cantanti strepitosi. Oggi, poi, obiettivamente in Italia di gente che sappia fare molto bene il metal ce n’è tanta...
 
Ritornando a 'Deserts', ora credo sia tempo di promozione. Ed immagino che la Sneakout stia facendo un ottimo lavoro in tal senso. Quale sarà invece la vostra parte? Concerti? Collaborazioni? O già a lavoro su nuovo materiale?  Sneakout sta facendo un ottimo lavoro e in particolare ringrazio tantissimo Stefano Gottardi, una persona speciale di quelle che se ne conoscono solo ogni tanto. Io in questo periodo sto parcheggiando tanti riff di chitarra su cui lavorare, ma per il momento sono personalmente concentrato sulla registrazione di un album con Elle Noir, la cantante degli Anims con cui ho condiviso l’album 'God is a Witness' ed ancora una volta con Paolo Caridi alla batteria. Per quanto riguarda la composizione sto facendo da solo tranne che per i testi che sta scrivendo mia moglie Chiara Mencarelli, della quale approfitto sia delle sue ispirazioni, sia della sua lingua madre che come ho scritto prima è l’inglese. Da questo impegno sono nate ad oggi un po’ di canzoni già incise, immagino cosa ancora ne uscirà, ma non so ancora cosa farò esattamente delle registrazioni; certamente un album che proporrò a Sneakout, ma non so insomma a che titolo. Per quanto riguarda i Krell vediamo come si svilupperanno le cose, è davvero presto!
 
E' il vostro momento. Non c'è un quesito finale: rispondete ad una domanda a cui vi sarebbe piaciuto rispondere e che non trovate tra quelle presenti in questa intervista. L’idea della domanda mancante è bella, però no… non c’è! È stato un grande piacere partecipare a questa intervista; grazie ancora a te per la recensione di 'Deserts'; ringrazio Hardsounds per questo spazio ulteriore; desidero infine ringraziare i lettori che sono arrivati a leggere sino a qui!

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