THE GATHERING: Mandylion
Sono stati incisi tanti grandi dischi, innumerevoli top album, lavori che indiscutibilmente hanno fatto la storia e/o influenzato le generazioni successive che hanno ricevuto entusiastiche, ma quanto classiche recensioni. Considerato che si tratta dei "biggest records", abbiamo pensato bene di dare loro la giusta visibilità e la dovuta dimensione con speciali che provano a scavare in fondo fin dentro le viscere dei contenuti degli album.
Dalla fine degli anni ’80 e fino ai primi anni ’90 in Olanda esisteva una realtà musicale dedita prevalentemente a sonorità vicine ad un certo tipo di death-doom metal, seppur non oltranzista e violento come quello che andava in voga sempre in quegli stessi anni in paesi come la Svezia in Europa, o come gli Stati Uniti, avvicinandosi invece a quelle sonorità che soprattutto la Triade britannica (My Dying Bride - Anathema - Paradise Lost), andava seguendo. Questa realtà rispondeva al nome di The Gathering, giovane band capitanata dai fratelli René ed Hans Rutten (rispettivamente chitarra solista e batteria), ai quali si unì alla fine degli anni ’80 nella sua fondazione il tastierista Frank Boejien, e che sono ad oggi i membri che hanno fatto parte della band costantemente sin dall’inizio.
In quegli anni i The Gathering avevano pubblicato due album, ed entrambi avevano in comune la doppia voce maschile in growl e femminile più lirica, che potrebbe rivelarsi come antesignana delle successive band che hanno calcato la scena in ambito gothic, symphonic e dark. Il primo, “Always…” del 1992, vedeva alle voci Bart Smits da una parte e Marike Groot dall’altra, e nel complesso si è rivelato un album qualitativamente valido, con delle linee musicali soprattutto delle chitarre sia di René Rutten che dell’altro chitarrista Jelmer Wiersma di sicura qualità, e con le prestazioni vocali dei due cantanti molto espressive ed efficaci. L’album seguente, “Almost A Dance” del 1993 vede invece al microfono Niels Duffhues e Martine van Loon, i quali francamente non dettero un grandissimo contributo nell’alzare il livello dell’album, e non ripeterono le gesta dei cantanti precedenti, sebbene per il resto fu comunque un album con degli spunti interessanti, frutto soprattutto della mente e delle melodie di René Rutten.
Vedendo che la band non riusciva appieno ad intraprendere la giusta rotta, si pensò anche in questo caso di congedarsi con la coppia Duffhues-Van Loon, provando a cercare nuove stelle da raggiungere. E tra quelle stelle ce n’era una dall’aspetto sfolgorante che avrebbe cambiato le sorti della loro carriera. Correva l’anno 1994 e la stella luminosa, dell’età di 21 anni, rispondeva al nome di Anneke Van Giersbergen, proveniente dalla ridente cittadina di Sint-Michielsgestel, nel sud dell’Olanda.
Grazie anche al nuovo contratto discografico con la Century Media, i The Gathering intrapresero i lavori per la pubblicazione di un album che gli amanti delle sonorità metal vicine al dark e al gothic, strizzando l’occhio anche ad una platea più ampia dedita ad un rock alternativo che negli anni ’90 iniziava a spadroneggiare, sicuramente possiederanno nei loro nutriti scaffali, possibilmente conservato in una teca di plexiglas, da poter utilizzare alla bisogna. L’album in questione è 'Mandylion', registrato presso i Woodhouse Studios di Hagen, in Germania, e ufficialmente pubblicato il 22 agosto 1995. Complessivamente 'Mandylion' non è particolarmente nutrito, essendo composto da otto tracce, che però hanno un minutaggio consistente, arrivando nel totale a superare i 52 minuti di durata. Come dice quell’antico detto, “nella botte piccola c’è il vino buono”, e qui di vino buono ce n’è davvero da vendere e da fare invidia alle più rinomate cantine della Toscana, o del Piemonte.
A partire dalla prima traccia, “Strange Machines”, che mantiene un’importante base metal, sfociando nel dark e nell’alternative rock. Un pezzo che trasuda e suscita emozioni grandissime dalla prima all’ultima nota, grazie al connubio prepotente tra le linee musicali ben realizzate da tutti i musicisti, nessuno escluso, e la straordinaria esplosività della voce della Van Giersbergen, che permette di esplorare mondi lontani a bordo di “macchine bizzarre”, per poi ritornare alla base e ripartire di nuovo verso nuovi orizzonti.
“I wanna do centuries in a lifetime / And feel it with my hands / Touch the world war II and Cleopatra / Flying…”
E durante questo viaggio, si raggiunge il climax, l’apice di tutto nel ritornello strumentale, in cui è assolutamente obbligatorio esporsi in headbanging epocali e privi di qualsivoglia raziocinio umano. Un’esplosione di suoni e musica da pelle d’oca, da brividi sull’epidermide, e i video dal vivo che seguono lo dimostrano: da una parte la partecipazione al Pinkpop Festival del 1996 con i membri della band con giusto qualche capello in più; dall'altra la celebrazione del 25° anniversario della band al Doornroosje di Nijmegen, un evento assolutamente unico alla presenza di tutti i musicisti che si sono uniti negli anni alla causa The Gathering, (eccezion fatta per le voci di “Almost A Dance”), ed al quale ero orgogliosamente presente e in prima fila. Anche a distanza di quasi vent’anni l’energia è sorprendentemente identica, e la voglia di esaltarsi si alza a livelli cosmici. A mio personale avviso uno dei brani più belli in senso assoluto degli ultimi 25 anni.
“Eléanor” sembra stemperare parzialmente gli animi, ma al tempo stesso ci si addentra in sentieri più prettamente dark, grazie a linee musicali che sembrano tracciare sentieri all’interno di boschi bui ed intricati, ma che trovano nella voce di Anneke una guida sicura che si consiglia caldamente di seguire per non ritrovarsi perduti nelle selve oscure create dalle chitarre di René Rutten e di Viersma, e che cercano di opporsi ai colpi di pugnale sferrati dalle tastiere di Boejien.
“Whatever happened ever since you left / You make yourself and me look like fools”
“Kill me with your thoughts / Use your mind / Hand me over to this world / Into death…”
Inizia così il primo dei due “In Motion” dell’album, “In Motion #1”, il quale è il primo brano che è stato registrato con la Van Giersbergen in studio. Il brano inizia con delle note cadenzate di tastiera, quasi ad emulare dei suoni di campane, alle quali segue un arrangiamento dark che sembra riprendere le sonorità di “Eléanor”. Questa struttura musicale viene però presa in mano dalla voce di Anneke che, riprendendo l’esperienza di gruppi quali Slowdive e Dead Can Dance, in questo caso si fa molto più melodica e lascia più spazio alle sue straordinarie estensioni, facendo addentrare l’ascoltatore in quella che è un’autentica catarsi musicale, un universo metafisico da accogliere ad occhi chiusi ed allargando i condotti uditivi, ma soprattutto aprendo la mente verso orizzonti paralleli, e lasciandosi prendere da versi come quello sopra citato che richiamano sensazioni che si avvicinano molto ad ipotetici “aldilà” spirituali.
C’è anche spazio per canzoni più romantiche, per non dire canzoni d’amore, e “Leaves” (al quale è stato girato anche un videoclip) credo possa essere un interessante esempio di come due corpi e due anime possano avvicinarsi sensibilmente, creando una sensazione di totale interesse reciproco, al limite della passione che però non sfocia mai in un’attrazione carnale, ma che rimane in territori comunque distinti fra loro, con reciproco rispetto tra le parti. Ed anche qui la voce di Anneke raggiunge vette difficilmente esplorabili.
“I close your eyes with my mouth / Now you don’t see anything / But you feel my breath all over / I can feel you too”
Nel caso di “Fear The Sea” i protagonisti principali si rivelano invece essere le parti strumentali magistralmente capeggiate dalle linee chitarristiche di Jelmer Wiersma (non a caso è anche chiamata “The Jelmer Song”), alle quali si affiancano la batteria di Hans Rutten, che insieme alla chitarra detta i ritmi del pezzo, e si accompagnano le linee vocali di Anneke che dona la sua voce per dei misurati versi che parlano di unione tra cielo e mare, dell’intrinseco rapporto tra gli elementi naturali, che possono spesse volte sfociare in conflitti che sono alla base della Natura, e dell’intrinseco rapporto tra gli stessi elementi naturali e noi esseri umani, fatto talvolta di confronto diretto ma anche di semplice riflessione e meditazione.
“Water travels by itself / Inspires us to fear the sea / When it affects our state of mind / We drown in our make believe”
La title-track di “Mandylion” è l’unico pezzo strumentale dell’album, e raccoglie in sé vibrazioni e spunti musicali provenienti da diverse culture, soprattutto quelle più vicine al Medio Oriente e ai misteriosi territori africani. In questo frangente percussioni dal suono tipicamente tribale si mescolano con strumenti a fiato suadenti e quasi ipnotici, creando un vortice musicale a cui si assiste assolutamente inermi, in preda ad atmosfere accompagnate da venti, fumi e profumi d’Oriente, per un viaggio sia musicale che culturale in cui noi siamo spettatori interessati, benché privi di qualsiasi legge di gravità.
“Sand And Mercury”, con i suoi quasi dieci minuti, è il pezzo più lungo dell’album, e in quegli anni veniva utilizzato come pezzo di chiusura durante i tour di 'Mandylion' e di 'Nighttime Birds'. È un pezzo molto evocativo, dove nella prima parte le tastiere di Frank Boejien creano tappeti molto dark, alle quali si appoggiano le ritmiche di chitarra che, assieme alla batteria, fanno riemergere l’ascoltatore da un ipotetico torpore e facendolo muovere al loro ritmo. Nella seconda parte, più struggente, emergono di più le linee sinuose di chitarra di René Rutten, che creano ghirigori fantasiosi, nei quali si inseriscono gli afflati vocali della Van Giersbergen, che si presentano talvolta tenui, altre volte leggermente più decise, e che raccontano una sensazione di morte che inesorabilmente si avvicina e che Anneke vuole provare ad alleviare cercando la vicinanza con il prossimo, anche se alla fine i suoi sforzi rimangono vani, e che la parte finale rappresenta come meglio non potrebbe, con le melodie struggenti di chitarra a fare da eterno commiato.
“My dear, don’t leave me now / Close at the edge of my end / All this time you have been my friend / Don’t go, stay for a while /
My dear, you’re losing me now / This will be my last hour / Hear my voice, see my face / See how sick I am / How I long for your embrace”
A terminare l’album ci pensa la seconda parte di “In Motion” (“In Motion #2”). E come per il primo episodio, si finisce l’album con la magia musicale che pochi artisti come loro sanno trasmettere, sprigionando nello stesso tempo forza e riflessione, aggressività e melodia, cielo e terra, in poche parole gli opposti che si attraggono, che raggiungono il loro apice nella seconda parte dell’album quando riprendono gli arpeggi di “In Motion #1”, ma con una rinnovata forza d’animo e di spirito.
“Make me cry in vain” / Leave one tear / Touch my face with your sigh / Leave me against the stream / One hundred words will see me / Passing by…”
52 minuti e mezzo di un’esperienza da vivere ed assaporare almeno una volta nella vita, anche giusto per provare la sensazione di esplorare orizzonti musicali dai quali poi, una volta entrati, chissà se sarà così facile volerne uscire. Un disco emozionante, strabiliante, esplosivo nella sua intrinseca riflessività, nella sua oscurità e nel suo mistero. A distanza di vent’anni esatti, è ancora e sarà sempre un disco che non stancherà mai, una volta ascoltato si ha sempre voglia di attingerne altre volte quando se ne sente la necessità, ammaliati da una voce incredibile come quella di Anneke Van Giersbergen e dalla classe musicale cristallina dei fratelli Hans e René Rutten e di Frank Boejien, che hanno ben guidato gli altri componenti nella creazione di un autentico paradiso musicale, racchiuso in un album assolutamente fondamentale.
Paul The Rock
26/08/2015, 08:20
Disco assolutamente stupendo e fondamentale nell'ambito musicale di allora e di oggi!