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STRAY BULLETS: Shut Up

data

23/03/2018
50


Genere: Hard Rock, Sleaze
Etichetta: Sneakout Records
Distro:
Anno: 2018

Arriva da Verona la band Stray Bullets, acquisizione della Burning Minds. Formatisi nel 2007, pubblicano un album nel 2010, "Lost Soul Town", inciso con registrazione domestica e autoprodotto. Dopo vari cambi di formazione, nel 2015 l'incontro con Stefano Gottardi e Oscar Burato porta la band, ormai orientata verso lo sleaze, a registrare un nuovo album. Fin qui tutto bene, se non fosse che, in realtà, la maggior parte del materiale presente su 'Shut Up' sia una rivisitazione delle song del precedente lavoro. Nell'insieme non risulta un disco totalmente spiacevole, quanto meno dal punto di vista strettamente strumentale. Si sentono fortissime le influenze degli L.A.Guns e di tutta la corrente sleaze losangelina, e sono presenti anche un paio di episodi piuttosto gradevoli come "Candy" e la ballatona strappavestiti "One Way Emotion", con un attacco che ricorda fortemente "Sometimes She Cries" dei Warrant. L'album apre con "Lost Soul Town", con un sound che riporta in un istante alla premiata ditta Lewis&Guns che farebbe felice qualsiasi nostalgico del periodo, compresa la sottoscritta. Farebbe, se non saltasse subito all'orecchio una certa piattezza nelle linee melodiche del cantato. Intendiamoci, la voce c'è, si sente. Ma undici tracce cantate tutte allo stesso modo, senza un minimo di interpretazione, affossano il lavoro di composizione dei brani, rendendoli praticamente tutti uguali. Si finisce dunque per non distinguere più chiaramente un pezzo dall'altro, così una "Sexpot", che avrebbe bisogno di una certa dose di ironia alla Crue (tenuto conto del testo, divertente anche se attinge a piene mani ai corsi e ricorsi storici sulle fanciulle), si perde nel calderone; così come "Crash", che altrimenti avrebbe un tiro notevole. Ecco, forse il problema maggiore di questo album è proprio il fatto che, se pur non brutto, non colpisce, non segna, non emoziona. Non c'è un brano che rimanga particolarmente impresso, ed a dire il vero ce ne sono un paio, "Rain" e "Blackout", che mi hanno prepotentemente spinta ad avvalermi del tasto forward. Altra nota dolente è la pronuncia inglese di Ale, vocalist della band. Non gli si chiede, chiaramente, che canti in inglese come se fosse la sua madrelingua, ma neppure che si senta così tanto l'appartenenza a un ceppo linguistico totalmente diverso. Sarebbe stato meglio, forse, seguire la scelta di altre band di cantare in italiano, curando maggiormente l'interpretazione dei brani e, magari, dei testi. Insomma, non totalmente bocciati, restiamo in attesa di scoprire se sapranno evolvere un pochino, anche in materia di scelta dell'artwork. Nonostante la volontà di osservarlo con sguardo totalmente ironico, appare comunque come un artificioso tentativo di mostrarsi al di sopra delle righe. Si può fare di meglio.

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