SOILWORK: A PREDATOR'S PORTRAIT
data
12/11/2005Con il terzo lavoro “A Predator’s Portrait” gli svedesi Soilwork sono chiamati a confermare quanto di buono fatto in precedenza e dimostrare alla Nuclear Blast, che li ha appena messi sotto la sua ala protettrice, se sapranno rivelarsi l’ennesima gallina dalle uova d’oro. Il precedente “The Chainheart Machine” era uno schiaffo in faccia al thrash svedese, che polverizzava tutti i (allora ancora pochi) concorrenti e si collocava a ridosso del capolavoro “Slaughter Of The Soul” dei maestri At The Gates. Con “A Predator’s Portrait” i Soilwork cominciano a sperimentare, a giocare con il loro sound, per evitare giustamente di rimanere invischiati nel riciclo di loro stessi; l’opener “Bastard Chain” è una mazzata terribile, e non aggiunge granchè di nuovo al Soilwork sound, se si escludono gli arrangiamenti. E’ con la seguente “Like The Average Stalker” che Speed e compagni scoprono le carte; un pezzo quasi progressivo, dove possiamo ascoltare per la prima volta l’ugola pulita di del massiccio singer. “Needlefeast” sublima le due anime appena citate; è infatti ad una folla corsa tipicamente swedish che si contrappone lo splendido ed evocativo ritornello. Non rischiano di strafare i Soilwork, con “A Predator’s Portrait”, nonostante qualche pezzo a vuoto ci sia. E’ innegabile però che brani del calibro di “Grand Failure Anthem”, “The Analyst”, “Final Fatal Force” o la title-track abbiano dato il ritmo all’ondata neo death dalla scandinavia. E “A Predator’s Portrait” è anche il passo obbligato che la band deve compiere per raggiungere in modo indolore il successivo e magniloquente “Natural Born Chaos”. La classe non è acqua.
Commenti