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SHEAVY: THE MACHINE THAT WON THE WAR

data

09/12/2007
70


Genere: Doom
Etichetta: Candlelight
Anno: 2007

Il ritorno dei canadesi sHEAVY, dopo un decennio di grosso e grasso rock pesante è ancora una volta all’insegna del rock più ignorante e sfacciatamente derivativo, meno grezzo del solito, più plastificato e con maggiore parvenza di attualità dei suoni (e qua la produzione di Don Ellis ha parecchio rilievo), pezzi brevi e tirati più duramente del solito, ma pur sempre revival dalla prima all’ultima nota. Fate come se Ozzy (di cui Steve Hennessey è una specie di clone) non avesse mai lasciato i Black Sabbath, immaginate una media ponderata tra tutto ciò che c’è tra 'Sabotage' ed 'Heaven And Hell', e ottenete, ne più ne meno questo album; se se in passato il risultato era più vario e tendente alla libera improvvisazione ('The Electric Sleep') o più pesante e oscuro ('Synchronized') o più impegnato alla ricerca del falso storico, per la costruzione dell’album hard rock perfetto ('Celestial Hi-Fi'). Questa volta la band preme l’acceleratore, azzera tutti i fronzoli e sega le divagazioni di ogni tipo, e così viene fuori un album revival plastificato e ispirato come gli Spiritual Beggars di 'On Fire' e di 'Demons', ma senza la finezza di Micheal Amott, senza grandi colpi di scena o sorprese, se non il fatto che dall’inizio alla fine non c’è una sola sosta, non c’è un attimo di respiro in questo flusso di coscienza musicale, più razionale e tagliente del solito ma, per quanto mi riguarda, meno fantasioso e spontaneo. Dan Moore è un ciclone, come al solito, e fa fare dei voli alla sua chitarra, questa volta meno hendrixiani, un altro punto a sfavore per quanto mi riguarda, e più heavy metal, anche se a dire la verità ce la mette proprio tutta per fabbricare instancabilmente riff memorabili e qualche volta ci va vicino (ora molto meno che in passato), ci riesce molto meglio quando fa la parte del guitar hero di provincia come in "The Gunfighters", piccola firmetta finale di un album che non conosce ne soste ne momenti di stallo (questo lo si deve riconoscere). Keith Foley si conferma un gran bel bassista, che regala qualche piccola prestazione che fa la differenza in pezzi come la classicissima "Aboard The Mothership" (la migliore del lotto), o in "Rings Of Saturn" (con sfumature funky irresistibili). "Humanoid" e "The Sleeping Assassin" sono il simbolo delle piccole variazioni apportate in quest’album, brutali e sature di suoni, con qualche riferimento NWOBHM. Ottimi per i per chi cerca un suono sabbathiano incontaminato, specie se non pensa che un album dei Black Sabbath sotto altro nome sia come fare sesso con una bambola gonfiabile, e specie se non preferisce addentrarsi nei precedenti lavori degli sHEAVY, leggermente più personali e stoned.

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