ODIN: BEST OF
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01/07/2009I californiani Odin mi ricordano tanto i Litfiba. Tranquilli, non sto parlando dello stesso genere musicale suonato. Se questi ultimi si sono sempre barcamenati tra rock (esordi) e pop (ultimo periodo con Pelù), i primi percorrono i sentieri stra-battuti del più classico heavy-metal figlio degli Iron Maiden (sentire il basso di Aaron Samson non può non ricordarci quello più innovativo per l’epoca di Harris). Il vero trait d’union è piuttosto dato dall’uso smodato e senza senso (se non per un bieco far cassa) dei best of. Se nella discografia della band di Renzulli si possono contare tante raccolte quanti sono gli album usciti, in quella del gruppo capitanato dai fratelli Duncan arriviamo addirittura al parossismo: ben due greatest hits del materiale tratto da quattro EP e appena un album! Le due raccolte, 'By the Gods' del 2001 e quest’ultima appena uscita, intitolata molto semplicemente 'Best of', sono intervallate da un solo EP del 2008. Davvero poca carne sul fuoco da dover ri-raccogliere in un album giustificato da appena un inedito. D’accordo, ci sarebbe da dire che, per l’occasione, il combo di Los Angeles ha chiamato un nome che conta in ambito metal, il celebre Roy Z (Helloween, Judas Priest, Bruce Dickinson, etc…) al banco del mix per remixare tutta questa enormità di materiale, ma in verità miracoli non se ne sono sentiti e le pecche di una produzione di basso livello si sentono ancora tutte. La band, che godette di un piccolo successo negli anni ottanta e di un breve revival verso la fine dei novanta, non ha mai avuto una formazione molto stabile. Arrivi e partenze hanno da sempre minato la vita di questo gruppo causandone poi lo scioglimento proprio agli inizi degli anni novanta (inutile ripetere come il fenomeno Grunge fu deleterio per tutta la scena Metal e contribuì in maniera determinante a porre fine alla carriera di molte band dell’epoca). Non c’è molto da dire su questa raccolta di diciassette pezzi più l’inedita “Let The Show Begin”: un onesto Heavy Metal (con un pizzico di Hard Rock ottantiano) senza tanti fronzoli, suonato dignitosamente e lievemente danneggiato, oltre che come detto dalla produzione, dalla stridula ugola di Randy O, gradevole all’inizio e insopportabile già dopo il quarto pezzo.
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